ASSOCIAZIONE CULTURALE "TEMPI NUOVI"

Blog di informazione e discussione sulle attività della associazione

venerdì 21 novembre 2008

Il costo umano - di J. Stiglitz

In un mondo globalizzato non dovrebbe sorprendere che a spostarsi più facilmente attraverso le frontiere siano non solo le cose buone, ma anche quelle cattive. Ora, l’America ha esportato in tutto il mondo la fase calante del suo ciclo economico.

Una crisi finanziaria globale richiede una soluzione globale. Politiche macro-economiche non coordinate hanno contribuito ai problemi dell’Europa. Quando la Banca Centrale Europea, all’inizio dell’anno, si è rifiutata di ridurre i tassi d’interesse, concentrando l’attenzione sulla minaccia d’inflazione, mentre l’America li abbassava concentrandosi sull’imminente fase calante, questo ha portato a un euro più forte, che ha contribuito alla depressione dell’Europa, il che ha fatto sembrare migliori le cifre del Pil americano, ma solo per un momento. Ora la fase calante del ciclo economico europeo sta rimbalzando sull’America: la debolezza dell’Europa contribuisce a quella americana.

La stessa cosa è accaduta per quanto concerne le norme. C’è stata una corsa al basso eccessiva, secondo il mito che vuole la deregulation creatrice di innovazione. L’innovazione ha raggiunto il suo massimo quando è riuscita ad aggirare le norme progettate per assicurare buona informazione e un sistema finanziario sicuro e solido. Si presume che i mercati finanziari siano un mezzo per un fine - cioè un’economia più florida e stabile come risultato di una buona allocazione delle risorse e di una migliore gestione dei rischi. Invece i mercati finanziari non hanno gestito i rischi ma li hanno creati. Non hanno messo le famiglie americane in grado di gestire la crisi dei tassi a interesse variabile e adesso milioni di persone stanno perdendo la loro casa. Inoltre hanno investito male miliardi di dollari.

Le conseguenze di questi errori ammonteranno a migliaia di miliardi - non solo il denaro speso nel salvataggio finanziario di imprese in difficoltà, ma anche la differenza (in meno) tra la crescita economica globale potenziale e l’andamento attuale. Al di là di questo, ovviamente, c’è il tributo umano - famiglie i cui sogni di vita vengono distrutti nel momento in cui perdono casa, lavoro, risparmi. Se dobbiamo mantenere la liberalizzazione finanziaria globale, con prodotti finanziari che si spostano facilmente attraverso le frontiere, dobbiamo essere certi che questi prodotti sono sicuri e che le istituzioni finanziarie che li creano e li vendono sono in grado di sostenerli.

I regolatori del mercato finanziario, a livello sia nazionale sia internazionale, hanno fallito. In larga misura Basilea II, la nuova cornice della regolamentazione bancaria, è essa stessa un ossimoro. Le banche hanno dimostrato di non essere all’altezza del compito di gestire i propri rischi. Ma se anche lo fossero, c’è l’ancor più fondamentale problema del rischio di sistema.

L’attuale architettura finanziaria globale non funziona bene. Peggio ancora, è scorretta, soprattutto verso i Paesi in via di sviluppo. Essi saranno nel novero delle vittime innocenti di questa crisi globale che porta l’etichetta «Made in America». Anche Paesi che hanno fatto ogni cosa correttamente - quelli che hanno gestito la loro economia secondo regole migliori e con una maggior prudenza macro-economica rispetto agli Stati Uniti - patiranno le conseguenze degli errori americani. Peggio ancora, il Fondo Monetario Internazionale ha chiesto - almeno in passato - politiche pro-cicliche (alzando tasse e tassi d’interesse e abbassando le spese quando un’economia va in recessione), mentre l’Europa e l’America fanno esattamente l’opposto. Il risultato è che il capitale scappa dai Paesi in via di sviluppo in tempi di crisi, rinforzando il circolo vizioso.

C’è una crescente indicazione che i Paesi in via di sviluppo potrebbero richiedere massicce quantità di denaro, ben oltre le disponibilità del Fmi. Le fonti di liquidi sono in Asia e in Medio Oriente. Ma perché mai questi Paesi dovrebbero girare i loro sudati denari a un’istituzione con precedenti fallimentari, un’istituzione che ha spinto la deregulation al punto da gettare il mondo nel disastro in cui ci troviamo ora, un’istituzione che continua a perorare le politiche asimmetriche che hanno contribuito all’instabilità globale e la cui struttura di governance è così difettosa?

Per aiutare i Paesi in via di sviluppo abbiamo bisogno di una nuova struttura finanziaria, la cui governance rifletta le realtà di oggi e che in futuro possa portare a più profonde riforme del Fmi. Una struttura del genere dev’essere creata in tempi brevi, ma se le venissero prestati esperti dai ministeri delle Finanze e dalle banche centrali, potrebbe entrare rapidamente in funzione.

Ci sono poi altre riforme da intraprendere. Anche il sistema monetario globale basato sul dollari è un sistema ormai logoro - e il dollaro non si è rivelato una buona riserva di valore. Ma un sistema dollaro-euro o dollaro-euro-yen potrebbe essere ancora più instabile. Abbiamo bisogno di un sistema monetario globale per un sistema finanziario globale. Keynes ne scrisse all’epoca dell’ultimo grande ciclo negativo, ma oggi ne abbiamo bisogno ancor più di allora. La sua speranza era che il Fmi creasse una nuova moneta globale - la chiamò Bancor - con tutte le caratteristiche dei Diritti Speciali di Prelievo (Sdr) del Fmi. Questa è un’idea la cui ora sembra finalmente arrivata. È chiaro che l’America non sarebbe mai prosperata se avesse lasciato la gestione del suo sistema finanziario ai cinquanta Stati, ognuno libero di fare per sé. Essi hanno un ruolo, ma quello del governo nazionale è sostanziale. Ora noi abbiamo un impianto finanziario globale, ma ne lasciamo la gestione ai singoli Paesi. Un sistema del genere semplicemente non può funzionare.

Noi non raggiungeremo mai una perfetta stabilità dei mercati finanziari o della nostra economia. I mercati non si correggono da sé. Possiamo però fare molto meglio. I leader dell’Europa e dell’Asia potrebbero aprire la strada, facendo il primo passo verso un’architettura finanziaria globale di cui il mondo ha estremo bisogno, se vogliamo un XXI secolo stabile e prospero.

Copyright Der Spiegel Distributed by The New York Times Syndicate

martedì 28 ottobre 2008

Il nulla che unisce Dio e Darwin

Gli sviluppi della biologia hanno sottoposto la teoria dell'evoluzione a critiche profonde, ma ne tengono tuttora fermi i capisaldi: il carattere casuale della produzione del patrimonio genetico e la selezione naturale. In un passo molto noto de Il caso e la necessità, Jacques Monod scrive che «soltanto il caso è all'origine di ogni novità, di ogni creazione nella biosfera. Il caso puro, il solo caso, libertà assoluta ma cieca, alla radice del prodigioso edificio dell'evoluzione». Monod si rifà esplicitamente al concetto democriteo di caso: la biologia percepisce il proprio legame con la filosofia greca, ma di esso non coglie ancora la forza — che in quanto segue intendo richiamare. D'altra parte la biologia sfrutta oggi a fondo il concetto di «programma», desunto dalla teoria dell'informazione: nei cromosomi di un embrione esiste un «piano», un «programma» appunto. «La vita segue un programma», che è «l'insieme delle potenzialità incorporate nella sostanza dei geni» (Salvador Luria). E, anche qui, il concetto biologico di «programma» è strettamente legato a quello aristotelico di «potenza».

Tale concetto aristotelico di «potenza» guida l'intera civiltà occidentale — quindi anche l'intero sviluppo del sapere scientifico. Non è una stranezza che Werner Heisenberg abbia affermato che le «onde di probabilità» che producono i fenomeni «possono essere interpretate come una formulazione quantitativa del concetto aristotelico di dýnamis, di possibilità, chiamato anche, più tardi, col nome latino di potentia».

L'«onda di probabilità» ha però molto da insegnare al modo in cui la biologia intende il concetto di «programma». Ha da insegnare che la scienza deve lasciarsi alle spalle ogni «necessità» e che la biologia non può concepire il patrimonio genetico come qualcosa che, «uscito dall'ambito del puro caso entra in quello della necessità, delle più inesorabili determinazioni», come sostiene Monod.

«Caso» traduce la parola greca autòmaton che, alla lettera, significa «(ciò) che tende, si muove e si produce da sé». È la parola usata da Democrito — ma anche da Aristotele. Se si guarda ciò che sta attorno all'autòmaton, non si trova nulla che spieghi perché esso tenda, si muova, si produca. Cioè si trova il nulla. Muovendosi e producendosi «da sé stesso», si muove e si produce a partire dal proprio non essere.

Ma quando la filosofia parla dell'«essere» e del «non essere» li pensa primariamente in relazione al divenire del mondo. Si tratta di comprendere che il caso non è una forma particolare e più o meno diffusa di divenire, ma che, dato il modo in cui l'Occidente intende il divenire, il divenire, in quanto tale, è caso: dunque è caso anche quando, come appunto avviene nella tradizione occidentale, si intende che il divenire sia guidato dalla Mente o dalla Provvidenza divina e creato da essa; ed è caso anche quando si presenta con quelle altissime forme di regolarità che sono state via via messe in luce dall'uomo comune e dalla scienza. Per Aristotele l'embrione è «in potenza» un uomo, ossia è il «programma» seguito dalla vita umana che si sviluppa. L'embrione diventa uomo, nel senso che realizza il proprio programma (il proprio Dna, dice oggi la genetica). Ma, prima dell'esistenza (cioè dell'«essere») dell'uomo, tale realizzazione non esisteva, cioè «non era», era nulla. E la biologia si esprime appunto, continuamente, con affermazioni come questa (di Jacob): che l'evoluzione ha prodotto «fenomeni che prima sulla terra non esistevano».

Affermare che l'embrione è «in potenza» uomo significa dunque affermare che, nell'embrione, l'uomo realizzato non è, è nulla: si pensa, certamente, che esista già il programma di un certo individuo umano, ma non la realizzazione di tale individuo. Il programma, che è già esistente, è cioè unito al non essere (al nulla) della propria realizzazione. In relazione al programma, tale realizzazione non è casuale: il programma ne è la «spiegazione» e l'anticipazione. Ma in quanto la realizzazione è nulla quando ancora non esiste l'uomo realizzato, ne viene che questa sua nullità non può essere una «spiegazione» o un'anticipazione del futuro: è un nulla di spiegazione e di anticipazione. Ciò significa che, proprio perché si produce a partire dal proprio nulla, la realizzazione del programma è un «prodursi da sé», un autòmaton: è caso.

Non può quindi essere che aleatorio, casuale, il modo stesso in cui il programma guida l'evoluzione degli individui e delle specie. Se ancora si vuole parlare di «guida», il rapporto tra programma e sua realizzazione (o tra «genotipo » e «fenotipo») può avere soltanto un carattere «probabilistico» (come l'«onda di probabilità» di Heisenberg). Ma lo stesso accade nel rapporto tra il «Programma » divino e le sue creature, che, per quanto anticipate e spiegate dal «Programma», secondo la teologia cristiana sono da esso create ex nihilo sui et subiecti: «Dal loro esser (state) nulla e dalla nullità della materia ( subiecti) di cui son fatte». Nonostante abbiano alle spalle addirittura il Programma divino, le cose del mondo, in quanto create ex nihilo, sono caso, esistono casualmente. Il caso prevale sulla Provvidenza, che nella storia dell'Occidente intende, invece, essere spiegazione e anticipazione assoluta delle creature, mantenendo tuttavia, contraddittoriamente, la loro nullità originaria, ossia il loro essere originariamente un nulla che non può in alcun modo spiegare e anticipare la loro realizzazione. La stessa creazione divina del mondo è casuale, nonostante l'intenzione più ferma di vedere in essa la negazione più radicale della casualità.

Il creazionismo e le forme più intransigenti di evoluzionismo si trovano dunque sullo stesso piano: sono grandi variazioni dello stesso Tema, il Tema del divenire, inteso come evoluzione dalla potenza all'atto che la realizza, e pertanto come evoluzione dal non essere all'essere. Se si è capaci di scendere nel sottosuolo della filosofia (ossia dell'anima) del nostro tempo, si scorge il legame essenziale che unisce l'evoluzione (il divenire) e il caso. Il divenire è caso; e nessuna necessità può caratterizzare i programmi informatici, biologici, metafisici, teologici perché se essa esistesse spiegherebbe e anticiperebbe tutto il futuro e, quindi, lo dissolverebbe perché dissolverebbe il nulla di ciò che ancora non è: dissolverebbe il divenire e l'evolversi di cui tale necessità vorrebbe essere la spiegazione e l'anticipazione: dissolverebbe quel divenire che, per gli stessi amici dei programmi mondani o divini, è l'evidenza suprema.

Quel sottosuolo scorge, pertanto, che l'evoluzione non può nemmeno avere uno scopo necessario. Proprio perché il nulla originario delle cose non spiega e non anticipa il loro futuro, e la loro realizzazione è «libertà assoluta», l'evoluzione è «cieca», non può avere alcuna direzione se non quella che di fatto, casualmente, si produce e che di fatto è osservabile. Qualora avesse uno scopo inevitabile, quest'ultimo sarebbe daccapo il programma che dissolve il nulla del futuro e il divenire del mondo. Se la «direzione» dei fenomeni biologici è un semplice fatto constatabile (e non una «necessità»: il divenire del mondo «non ha senso»), rimangono tuttavia gli scopi dell'uomo (il senso che egli dà alle cose): rimane la sua lotta per la sopravvivenza, che ripropone e prolunga, nella dimensione cosciente, la cosiddetta «selezione naturale», secondo un tipo di «evoluzione » in cui va di fatto prevalendo, sugli altri scopi della civiltà occidentale e planetaria, la volontà dell'apparato scientifico-tecnologico di incrementare all'infinito la capacità di realizzare scopi. Va dunque prevalendo la selezione artificiale che si propone di guidare — secondo le leggi statistico- probabilistiche della scienza — la stessa «selezione naturale».
Per quanto paradossale possa apparire, la «teoria dell'evoluzione», e in generale del divenire, è il farsi massimamente coerente da parte della teoria della creazione divina del mondo; è la variazione più coerente al Tema del divenire. Ma è questo Tema a non venire mai e in alcun modo discusso nel suo significato più profondo. Esso porta ormai sulle proprie spalle l'intera storia della Terra. Non è già questo il motivo sufficiente perché finalmente ci si fermi, ci si volti e lo si guardi in faccia (e lo si scuota per vedere fino a che punto non si lascia sradicare)?

di Emanuele Severino
26 settembre 2008

domenica 29 giugno 2008

Verso l'energia rinnovabile

Riprendo dal blog di Beppe Grillo questo intervento di Rifkin.

Ora, al tramonto [della seconda rivoluzione industriale] ci sono alcune situazioni davvero molto critiche. Il prezzo dell’energia sta drammaticamente salendo e il mercato mondiale del petrolio si è appena avviato al suo picco di produzione. I prezzi del cibo sono raddoppiati negli ultimi anni poiché la produzione di cibo è prevalentemente basata sui combustibili fossili. Appena raggiungeremo il picco della produzione di petrolio, i prezzi saliranno, l’economia globale ristagnerà, avremo recessione e ci saranno persone che non riusciranno a mettere in tavola qualcosa da mangiare. Il “picco del petrolio” avviene si è usato metà del petrolio disponibile. Quando questo avverrà, quando saremo all’apice di questa curva, saremo alla fine dell’era del petrolio perché il costo di estrazione non sarà più sostenibile. Quando arriveremo al picco? L’ottimista agenzia internazionale per l’energia dice che ci arriveremo probabilmente attorno al 2025-2035. D’altra parte negli ultimi anni alcuni dei più grandi geologi del mondo, utilizzando dei modelli matematici molto avanzati, rilevano che arriveremo al picco tra il 2010 e il 2020. Uno dei maggiori esperti sostiene che il picco è già stato raggiunto nel 2005. Ora, il giacimento del Mare del Nord ha raggiunto il picco 3 anni fa. Il Messico, il quarto produttore mondiale, raggiungerà il picco nel 2010, come probabilmente la Russia. Nel mio libro, Economia all’idrogeno, ho speso molte parole su questa questione. Io non so chi ha ragione, gli ottimisti o i pessimisti. Ma questo non fa alcuna differenza, è una piccolissima finestra. La seconda crisi legata al tramonto di questo regime energetico è l’aumento di instabilità politica nei Paesi produttori di petrolio. Dobbiamo capire che oggi un terzo delle guerre civili nel mondo è nei Paesi produttori di petrolio. Immaginate cosa accadrà nel 2009, 2010, 2011, 2012 e così via. Tutti vogliono il petrolio, il petrolio sta diventando sempre più costoso. Ci saranno più conflitti politici e militari nei Paesi produttori. Infine, c’è la questione dei cambiamenti climatici. Se prendiamo gli obiettivi dell’Unione Europea sulla riduzione della Co2, e la UE è la più aggressiva del mondo in questo senso, anche se riuscissimo a raggiungere quegli obiettivi ma non facessero lo stesso India, Cina e altri Paesi, la temperatura aumenterà di 6°C in questo secolo e sarà la fine della civilizzazione come la conosciamo. Lasciatemi dire che quello di cui abbiamo bisogno adesso è un piano economico che sia sufficientemente ambizioso ed efficace per gestire l’enormità del picco del petrolio e dei cambiamenti climatici. Lasciatemi dire che le grandi rivoluzioni economiche accadono quando l’umanità cambia il modo di produrre l’energia, primo, e quando cambia il modo di comunicare, per organizzare questa rivoluzione energetica. All’inizio del XX secolo la rivoluzione del telegrafo e del telefono convergeva con quella del petrolio e della combustione interna, dando vita alla seconda rivoluzione industriale. Ora siamo al tramonto di quella rivoluzione industriale. La domanda è: come aprire la porta alla terza rivoluzione industriale. Oggi siamo in grado di comunicare peer to peer, uno a uno, uno a molti, molti a molti. Io sto comunicando con voi via Internet. Questa rivoluzione “distribuita” della comunicazione, questa è la parola chiave: “distribuita”, questa rivoluzione “piatta”, “equa” della comunicazione proprio ora sta cominciando a convergere con la rivoluzione della nuova energia distribuita. La convergenza di queste due tecnologie può aprire la strada alla terza rivoluzione industriale. L’energia distribuita la troviamo dietro l’angolo. Ce n’è ovunque in Italia, ovunque nel mondo. Il Sole sorge ovunque sul pianeta. Il vento soffia su tutta la Terra, se viviamo sulla costa abbiamo la forza delle onde. Sotto il terreno tutti abbiamo calore. C’è il mini idroelettrico. Queste sono energie distribuite che si trovano ovunque. L’Unione Europea ha posto il primo pilastro della terza rivoluzione industriale, che sono le energie rinnovabili e distribuite. Primo, dobbiamo passare alle energie rinnovabili e distribuite. La UE ha fissato l’obiettivo al 20%. Secondo, dobbiamo rendere tutti gli edifici impianti di generazione di energia. Milioni di edifici che producono e raccolgono energia in un grande impianto di generazione. Questo già esiste. Terzo pilastro: come accumuliamo questa energia? Perché il Sole non splende sempre, nemmeno nella bellissima Italia. Il vento non soffia sempre e le centrali idroelettriche possono non funzionare nei periodi di siccità. Il terzo pilastro riguarda come raccogliamo questa energia e la principale forma di accumulo sarà l’idrogeno. L’idrogeno può accumulare l’energia così come i supporti digitali contengono le informazioni multimediali. Infine, il quarto pilastro, quando la comunicazione distribuita converge verso la rivoluzione energetica generando la terza rivoluzione industriale. Prendiamo la stessa tecnologia che usiamo per Internet, la stessa, e prendiamo la rete energetica italiana, europea e la rendiamo una grande rete mondiale, come Internet. Quando io, voi e ognuno produrrà la sua propria energia come produciamo informazione grazie ai computer, la accumuliamo grazie all’idrogeno come i media con i supporti digitali, potremo condividere il surplus di produzione nella rete italiana, europea e globale nella “InterGrid”, come condividiamo le informazioni in Internet. Questa è la terza rivoluzione industriale. Io lavoro con molte tra le più grandi aziende energetiche del mondo, come consulente. Lasciatemi fare una considerazione in termini di business, non in termini ideologici. Non credo che l’energia nucleare sarà significativa in futuro e credo che sia alla fine del suo corso e qualsiasi governo sbaglierebbe a investire nell’atomo. Vi spiego le ragioni. Non produciamo Co2 con gli impianti nucleari, quindi dovrebbe essere parte della soluzione ai problemi climatici. Ma guardiamo ai numeri. Ci sono 439 impianti nucleari al mondo, oggi, che producono solo il 5% dell’energia che consumiamo. Questi impianti sono molto vecchi. C’è qualcuno in Italia o nel mondo che davvero crede che si possano rimpiazzare i 439 impianti che abbiamo oggi nei prossimi vent’anni. Anche se lo facessimo continueremmo a produrre solo il 5% dell’energia consumata, senza alcun beneficio per i cambiamenti climatici. E’ chiaro che perché ne avesse, dovrebbero coprire almeno il 20% della produzione. Ma perché la produzione di energia sia per il 20% nucleare, dovremmo costruire 3 centrali atomiche ogni 30 giorni per i prossimi 60 anni. Capito? Duemila centrali atomiche. Tre nuove centrali ogni mese per sessant’anni. Non sappiamo ancora cosa fare con le scorie. Siamo nell'energia atomica da 60 anni e l'industria ci aveva detto: "Costruite gli impianti e dateci tempo sufficiente per capire come trasportare e stoccare le scorie". Sessant'anni dopo questa industria ci dice "Fidatevi ancora di noi, possiamo farcela", ma ancora non sanno come fare. L'agenzia internazionale per l'energia atomica dice che potremmo avere carenza di uranio tra il 2025 e il 2035, facendo cosi' morire i 439 impianti nucleare che producono il 5% dell'energia del mondo. Potremmo prendere l'uranio che abbiamo e convertirlo in plutonio. Ma avremmo il pericolo del terrorismo nucleare. Vogliamo davvero avere plutonio in tutto il mondo in un'epoca di potenziali attacchi terroristici? Credo sia folle. E infine, una cosa che tutti dovrebbero discutere col vicino di casa: non abbiamo acqua! Questo le aziende energetiche lo sanno ma la gente no. Prendete la Francia, la quintessenza dell'energia atomica, prodotta per il 70%. Questo e' quello che la gente non sa: il 40% di tutta l'acqua consumata in Francia lo scorso anno, e' servita a raffreddare i reattori nucleari. Il 40%. Vi ricordate tre anni fa, quando molti anziani in Francia morirono durante l'estate perche' l'aria condizionata era scarsa? Quello che non sapete e' che non ci fu abbastanza acqua per raffreddare i reattori nucleari, che dovettero diminuire la loro produzione di elettricita'. Dove pensano di trovare, l'Italia e gli altri Paesi, l'acqua per raffreddare gli impianti se non l'ha trovata la Francia?
Quello che dobbiamo fare è democratizzare l’energia. La terza rivoluzione industriale significa dare potere alle persone e per la generazione cresciuta con la Rete questo è la conclusione e il completamento di questa rivoluzione, proprio come ora parliamo in Internet, centinaia di persone sono in Internet, ed è tutto gratuito, e questi possono creare il più grande, decentralizzato, network televisivo, open source, condiviso…perché non possiamo farlo con l’energia? L’Italia è l’Arabia Saudita delle energie rinnovabili! Ci sono così tante e distribuite energie rinnovabili nel vostro Paese! Mi meraviglio quando vengo nel vostro Paese e vedo che non vi state muovendo nella direzione in cui si muove la Spagna, aggressivamente verso le energie rinnovabili. Per esempio, voi avete il Sole! Avete così tanto sole da Roma a Bari. Avete il Sole! Siete una penisola, avete il vento tutto il tempo, avete il mare che vi circonda, avete ricche zone geotermiche in Toscana, biomasse da Bolzano in su nel nord Italia, avete la neve, per l’idroelettrico, dalle Alpi. Voi avete molta più energia di quella che vi serve, in energie rinnovabili! Non la state usando…io non capisco. L’Italia potrebbe. Credo che, umilmente, quel che posso dire al governo italiano è: a che gioco volete giocare? Se il vostro piano è restare nelle vecchie energie, l’Italia non sarà competitiva e non potrà godere dell’effetto moltiplicatore sull’economia della terza rivoluzione industriale per muoversi nella nuova rivoluzione economica e si troverà a correre dietro a molti altri Paesi col passare del XXI secolo. Se invece l’Italia deciderà che è il momento di iniziare a muoversi verso la terza rivoluzione industriale, le opportunità per l’Italia e i suoi abitanti saranno enormi. Da anni seguo il tuo sito, vorrei che ci fossero voci come la tua in altri Paesi. Ha permesso a cosi' tante persone di impegnarsi insieme...credo sia istruttivo rispetto alla strada che dobbiamo intraprendere."
Jeremy Rifkin

lunedì 2 giugno 2008

Il disastro climatico sta già portando la fame

Forse è già cominciato e non ce ne siamo accorti. Dopo aver letto Nutrition, Climate Change and Bioenergy, il rapporto che la Fao presenterà domani, all'apertura del summit di Roma, è difficile sfuggire alla sensazione che lo spettro della fame sia uno degli effetti del global warming in atto, che lo scenario devastante del disastro climatico annunciato al futuro debba essere declinato al presente.

Nei paesi in via di sviluppo 820 milioni di persone sono sottonutriti e, nota la Fao, al danno si aggiunge la beffa: metà di questi affamati sono contadini, il 30 per cento pescatori e gente che abita in campagna, il 20 per cento poveri urbanizzati. Dunque più di metà della popolazione che non ha abbastanza cibo è costituita da persone che per lavoro producono cibo. Vuol dire che nel meccanismo si è rotto qualcosa. E questo qualcosa è legato "alle due maggiori sfide che abbiamo di fronte nella battaglia contro l'insicurezza alimentare e la malnutrizione: il cambiamento climatico e il crescente uso dei raccolti agricoli come fonte di energia".

La coperta è troppo corta e tirarla da una parte serve a poco. Non si può pensare di continuare ad aumentare la quantità totale di cibo usando sempre più acqua e sempre più energia perché sono proprio questi i fattori che limitano la crescita. Un miliardo e 400 milioni di persone vivono lungo bacini fluviali che già oggi usano più acqua di quella che si rinnova naturalmente. E la popolazione delle città - quella che consuma più risorse ed energia - raddoppierà tra il 2007 e il 2050. In queste condizioni tentare di conquistare energia pescando nello stesso pacchetto di risorse che oggi offre una risposta alle esigenze alimentari serve a poco.

La domanda di biocombustibili non è la principale responsabile della crescita dei prezzi alimentari (un meccanismo governato soprattutto dalla domanda crescente) ma contribuisce per un 10-15 per cento. E aggiunge danno a danno: "Visto che la domanda di biocombustibili resterà probabilmente alta e si dovranno sostenere i raccolti alimentari, si finirà per utilizzare nuove terre per le coltivazioni. Bruciare le foreste produrrà così altri gas serra che accelereranno il cambiamento climatico".

Un meccanismo perverso che non si può fermare discutendo solo di tecnologie. "Una più vasta partecipazione al processo di sviluppo da parte delle persone più povere e vulnerabili e delle donne", nota la Fao, "può portare a programmi nutrizionali più efficaci". E l'apertura dei negoziati per la seconda fase del protocollo di Kyoto (quella che scatterà dopo il 2012) offre l'occasione per inserire il tema agricolo nell'agenda degli impegni obbligatori a difesa del clima. Anche perché il governo della terra pesa per più del 30 per cento sull'assieme delle emissioni serra (17,4 per cento la deforestazione, 13,5 per cento l'agricoltura).

Solo con un uso più attento delle risorse disponibili, con l'aumento dei servizi di base e con una più capillare informazione si potrà alleggerire il doppio peso che grava sull'umanità: 820 milioni di affamati e un miliardo di persone sovrappeso (di cui 300 milioni obesi). Una pressione congiunta che rischia di far saltare gli obiettivi di lotta alla malnutrizione: in Messico il numero delle persone obese e sovrappeso è quasi raddoppiato tra le fasce più povere della popolazione tra il 1988 e il 1998 e ha raggiunto oggi quota 60 per cento.

mercoledì 30 aprile 2008

Perchè la terra non sia desolata

Enzo Bianchi
www.lastampa.it

La custodia e la salvaguardia del creato sono ormai diventate uno dei temi più presenti nella meditazione dei cristiani, al di là delle differenze confessionali: a più riprese in questi due ultimi decenni le chiese cristiane sia singolarmente che insieme hanno fatto sentire la loro voce per denunciare «i peccati contro la natura» e per indicare ai cristiani e agli uomini un mutamento nel loro rapporto con la creazione. Da un lato le istituzioni ecclesiali come tali non si tengono in disparte «oggi di fronte alle prospettive di un dissesto ecologico che rende inospitali e nemiche dell’uomo vaste aree del pianeta», dal canto loro i teologi continuano a fornire e hanno fornito contributi fondamentali per una lettura cristiana della questione ecologica.
Ci si potrebbe chiedere se questa attenzione al tema non sia giunta in ritardo, sollecitata dal sorgere e dall’espandersi dei movimenti ecologisti; così come non si può negare che a volte questo interesse per il tema ecologico appare un tentativo di recupero, perfino una confessione di mea culpa, fatta senza discernimento, per il peccato di antropocentrismo.
E’ utile allora avere tra le mani una pacata rilettura delle fonti giudaico-cristiane che esortano l’uomo «a essere un umile custode del pianeta, animato da spirito di ammirazione e abnegazione». E’ quanto offre un agile libretto (Per un’ecologia cristiana, Lindau, pp. 80, e 11) curato da due coniugi francesi, Hélène e Jean Bastaire - il secondo noto in Italia per alcuni saggi su Péguy e per Eros redento, un testo illuminante sulla dialettica tra ascesi e sessualità - che ci fa ripercorrere con brevi citazioni e sapienti inquadrature quasi tre millenni di lettura della creazione con gli occhi della fede ebraica e cristiana.
Leggendo in quest’ottica il patrimonio tradizionale cristiano, dal racconto della creazione nella Genesi alle pagine evangeliche più note, da padri della Chiesa come Ireneo a santi universali come Francesco d’Assisi, fino ad autori più vicini a noi come Péguy e Claudel e alle più recenti dichiarazioni di papi e assemblee ecclesiali, ci si renderà conto che vi è spazio e materia, vi sono davvero ragioni cristiane assolute e precise per l’ecologia, ragioni mai separabili dal tema della giustizia e della pace.
La tradizione cristiana, in particolare, non può e non sa separare giustizia ed ecologia, condivisione della terra e rispetto della terra, attenzione alla vita della natura e cura per la qualità buona della vita umana. Questione sociale e questione ambientale sono due aspetti di un’unica urgenza: contrastare il disordine e la volontà di potenza, far regnare la giustizia, la pace, l’armonia. La terra, infatti, è desolata quando viene meno la qualità della vita dell’uomo e della vita del cosmo, così come la qualità della vita umana dipende anche dalla vita del cosmo di cui l’uomo fa parte e nel quale è la sua dimora.

Autore: Hélène e Jean Bastaire
Titolo: Per un’ecologia cristiana
Edizioni: Lindau
Pagine: 80
11 euro

giovedì 24 aprile 2008

AVVISO

Questo blog è ancora in fase di costruzione in attesa soprattutto della ripresa delle attività della Associazione.
Ricordo che sono attivi e abbastanza seguiti altri blog amici:

http://www.dirittoalsapere.blogspot.com/

http://www.sirimarco.blog.tiscali.it/

http://www.sansosti.blogspot.com/

martedì 4 marzo 2008

Aldo Moro: un'eredità che nessuno ha raccolto

Fra pochi giorni si scatenerà, da una parte, la corsa alla commemorazione di Aldo Moro nel trentennale della sua morte e, dall'altra, si tenderà di accreditarsi come gli eredi e in qualche modo i continuatori del suo pensiero ...
Franco Tritto, sempre refrattario e diffidente rispetto ai rituali del 16 marzo e del 9 maggio, due anni primi di morire, ha rilasciato questa intervista al mensile "50&Più" (intervista di Mario Prignano) che mi sembra interessante riproporre in questa occasione:

- Professore, tante manifestazioni e discorsi: crede che al di là delle parole ci sia davvero qualcuno che in Italia possa davvero parlare in nome di Aldo Moro?

No, nella maniera più assoluta. In occasione delle due ricorrenze storiche, il 16 marzo e il 9 maggio di ogni anno, siamo costretti ad assistere ad una sorta di tiro alla fune, per potersi accaparrare l'eredità politica di Aldo Moro. È una cosa penosa e raccapricciante ad un tempo. Credo di poter dire che nessuno oggi è in grado di accreditarsi una ipotetica, se mai possibile, eredità politica di Aldo Moro. Nessuno è alla sua altezza [...] La sua intelligenza, la sua statura umana, morale, politica, fanno di Moro un unicum nella storia d'Italia e, direi, a livello internazionale. Se a tutto questo aggiungiamo, poi, la capacità delle forze politiche di recepire e comprendere il vero senso del suo insegnamento, ecco che non riesco proprio ad intravedere nemmeno lontanamente, chi possa essere in grado di rappresentare davvero il suo pensiero.

- Si è sempre detto che la vicenda Moro rappresenta una cesura nella storia d'Italia contemporanea, che nulla dopo di allora è stato più uguale a prima. Qual è la sua opinione al riguardo?

È proprio vero: nulla è più come prima e questo per una serie di ragioni. In prima luogo credo di poter dire che se Aldo Moro fosse stato ancora tra noi, avremmo avuto un Paese un po' meno volgare. La politica sarebbe stata meno volgare. Sono sotto gli occhi di tutti le baruffe politiche alle quali siamo costretti ad assistere quotidianamente. Spesso i politici di oggi, senza distinzione alcuna, dimenticano l'obbligo, morale prima ancora che politico, di rappresentare l'Italia migliore, di dare un buon esempio, l'esempio della civiltà, non della volgarità. E invece vi è chi è convinto che la rappresentanza politica si conquista offrendo urla e schiamazzi [...] mentre dovrebbe essere la capacità di ascoltare, di capire le ragioni degli altri, di donare e ricevere fiducia, il vero modo di rappresentare la gente. Come seconda riflessione vorrei richiamare l'attenzione sulla capacità che Moro aveva di bloccare i processi degenerativi in qualsiasi ambito. Tutto questo lo induceva a prevedere con largo anticipo quali sarebbero state le conseguenze negative se, ad esempio, una legge o una riforma fossero andate in porto così come erano state inizialmente concepite. Lui faceva in modo che potessero maturare i tempi perché fossero apportati gli opportuni rimedi e le cose potessero prendere il giusto verso. Questo si è verificato in molti casi ... C'è poi un altro aspetto che credo sia fondamentale. Moro si era reso conto del rischio che stava correndo il sistema dei partiti, sempre più avvinghiato alle questioni di potere, sempre più proteso verso il sistema degli affari, così come aveva percepito che da qualche parte qualcuno stava progettando di usare la giustizia penale per fini politici. Dopo il 1978 qualcosa è cambiato. La corruzione si è trasformata in sistema proprio a partire da quella data. Altrettanto dicasi sul tema della giustizia adoperata per fini politici. Talvolta la nostra memoria non è a lunga percorrenza: nessuno (storici, politologi, giornalisti) ha mai riportato la mente alla campagna elettorale del 1976: le pareti di questa bella Italia erano tappezzate con enormi manifesti con uno slogan ed un'immagine molto familiari "mani pulite". Ecco Moro aveva percepito perfettamente il senso di quei manifesti, ed aveva intuito che qualcosa di anomalo e di preoccupante, per una democrazia, si andava profilando all'orizzonte della vita politica italiana e, pertanto, voleva vederci chiaro. Temeva sin da allora che davvero potesse iniziare un'era della giustizia penale usata a fini politici. Il 3 marzo del 1977 pronunciò il noto discorso sulla Lockheed innanzi al Parlamento in seduta comune. Di quel discorso viene rievocata sempre la frase "non ci faremo processare nelle piazze", ma ve n'è un'altra, a mio avviso, molto significativa, pronunciata da Moro in quella sede: "c'è un rischio di involuzione verso una giustizia politica". Ecco, vede, Moro aveva percepito in pieno da un lato il rischio del propagarsi della corruzione nel sistema politico italiano e, dall'altro aveva colto i primi segnali di una involuzione verso una giustizia politica. Se non fosse stato assassinato sono convinto che sarebbe riuscito ad evitare sia l'una cosa che l'altra. Purtroppo le cose sono andate come sappiamo.

- La storia non si fa con i se. Tuttavia se Aldo Moro fosse ancora tra noi lei lo immagina sulla breccia e attivo come lo sono ad esempio Andreotti, Cossiga o Scalfaro, oppure rinchiuso nel suo studio di via Savoia a scrivere memorie lontano dal mondo politico di oggi?

Mi sembra di aver letto da qualche parte: "E se la verità fosse quella giudiziaria?". Ecco questo è un se che reca danno alla storia, che è smentito non solo dalle dichiarazioni di alcuni magistrati che si sono impegnati per anni in prima persona nei vari processi, e che hanno messo in evidenza, comprovandole, le infinite menzogne che sono state raccontate proprio nel corso dei processi ... Con riferimento alla seconda parte della sua domanda non credo che Moro sarebbe mai rimasto rinchiuso nel suo studio: le finestre del suo pensiero erano sempre aperte, aperte verso il mondo, verso il nuovo che avanza, verso i giovani, verso le loro ansie, le loro aspirazioni. Credo che sarebbe stato un senatore a vita, nel senso di appartenenza alla vita degli italiani, così come, di fatto, è nei cuori della gente ...

- Il sequestro e la morte di Aldo Moro presentano ancora tanti lati oscuri. Crede che si arriverà mai a sapere quello che successe nei 55 giorni di prigionia?

I lati oscuri sono molti e preoccupanti. Credo che sia proprio giunta l'ora di fare chiarezza, altrimenti la storia d'Italia resterà incompiuta. Non tutte le responsabilità per la morte di Moro sono emerse o sono state attribuite, e non tutti coloro che possono dire hanno detto. Ma non riesco a spiegarmi per quale ragione (o forse riesco a spiegarmelo fin troppo bene) chi sa non dice, chi potrebbe offrire un contributo vero alla storia di questo paese, si astiene dal farlo. Venticinque anni sono un lasso di tempo abbastanza ragionevole perché gli eventi possano essere storicizzati. Peraltro il dire può essere liberatorio: "la verità è sempre illuminante, aiuta ad essere coraggiosi", diceva Moro.

- Qual è stato, e chi l'ha commesso, l'errore più grave compiuto in quei tremendi 55 giorni?

Errori ce ne sono stati molti. Ma non spetta certo a me dire quali siano stati quelli sotto il profilo giudiziario e chi li ha commessi. Dal punto di vista politico, l'errore più grave è stato quello di non aver valutato che cosa avrebbe comportato per la vita del paese l'assenza di una persona come Aldo Moro. E questo sì, questo posso dirlo, è stato un errore commesso dai comunisti e da buona parte dei democristiani dell'epoca. E vorrei ricordare i firmatari di una lettera nella quale si diceva che il pensiero di Moro non era riconoscibile nelle sue lettere inviate dalla prigionia. E pensare che sarebbe stato sufficiente leggere qualche frase dei suoi interventi tenuti all'Assemblea Costituente, o delle sue lezioni sul diritto e sullo stato, per avere conto della sua coerenza, di quale fosse il suo pensiero in tema di valori, di valore della vita dell'uomo ...

giovedì 31 gennaio 2008

Fede Ragione Università

Università”La Sapienza”
Facoltà Scienze Politiche
Master in Istituzioni parlamentari europee e storia costituzionale

Mercoledì 6 febbraio 2008, nella sala delle lauree
della Facoltà di Scienze Politiche (ore 15.30),

i proff. :
Vittorio Possenti,
ordinario di Filosofia politica nell’Università Ca’ Foscari di Venezia
Mario Caravale
ordinario di Storia del diritto italiano a “La Sapienza”
Teresa Serra
ordinario di Filosofia politica a “La Sapienza”
discuteranno su

Fede , ragione e Università
prendendo spunto dalla lezione
di Papa Benedetto XVI a “La Sapienza”

Coordina
Fulco Lanchester
Preside della Facoltà di Scienze politiche